EUGENIO GARIN – L’UMANESIMO ITALIANO
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L’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci (Anchiano 1452-Amboise 1519)
(Leonardo Da Vinci – Photo from www.lucnix.be. 2007-09-08)
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Eugenio Garin (Rieti 1909-Firenze 2004) (https://it.wikipedia.org/wiki/Eugenio_Garin)
Qualche osservazione preliminare. Filosofo e storico italiano della filosofia, è stato, se non il più autorevole, uno dei più autorevoli storici della filosofia e della cultura dell’Umanesimo e del Rinascimento. Nei suoi scritti sull’Umanesimo viene fatta piazza pulita degli equivoci che sempre vengono diffusi su questo movimento di idee che fu rivoluzionario e che lo è anche oggi a fronte di tutti i tentativi ancora in auge di farlo passare per ciò che non è mai stato e lo è in qualche libro ad usum Delphini. È grazie a studiosi come Eugenio Garin che regge ancora il significato di cultura e di metodo oggettivo in seno alle scienze umanistiche e non solo.
Eugenio Garin, (1993) L’Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento. Roma-Bari: Gius. Laterza & Figli: Edizione Speciale per il Giornale: IL GIORNALE: BIBLIOTECA STORICA: pp. 303.
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“(…) Uno storico della scienza, il Sarton, in una postuma polemica contro quei ‘presuntuosi dilettanti’ che furono gli umanisti, non ha esitato a concludere per ‘un indiscutibile regresso così dal punto di vista filosofico che da quello scientifico. Di fronte allo scolasticismo medioevale, ottuso ma onesto, la filosofia caratteristica di questa età, ossia il neoplatonismo fiorentino, fu un miscuglio superficiale di idee troppo vaghe per avere un valore reale’. Più radicale ancora, un o storico della filosofia come Bruno Nardi ha affermato che, ‘se vogliamo risalire davvero alle origini della filosofia moderna, bisogna saltare a piè pari il periodo umanistico’; e uno storico della letteratura, il Billanovich, ha parlato di un secolo di ‘silenzio, solo rotto dalle declinazioni sommesse dei grammatici’, mentre ‘la professione di studi filosofici è… degradata a prove… di acutezza filosofica e retorica’, in mezzo ‘a un disperso disordine intellettuale’. Verrebbe voglia di rispondere che quei grammatici e quei retori sui chiamarono Lorenzo Valla e Leon Battista Alberti; che da quegli ambienti sterili e vuoti uscirono Niccolò Cusano e Paolo Toscanelli; che la scienza di Leonardo e Galilei si maturò proprio in quel secolo che converrebbe saltare a piè pari; che in esso è pur venuto su Niccolò Machiavelli, e tutto quel fermento di critiche che si è espresso, poi, in un Telesio o in un Bacone; che un Erasmo da Rotterdam o un Montaigne sarebbero difficilmente concepibili senza la cultura quattrocentesca. Così, a proposito dell’antitesi Padova-Firenze, sarebbe anche troppo facile mostrarne, con i dati alla mano, tutta l’inconsistenza nelle persone e nelle concezioni. Se infatti l’Umanesimo quattrocentesco fu diverso nei vari centri culturali, ebbe pur tuttavia tratti comuni con cui penetrò dovunque, agendo dovunque in senso profondamente e radicalmente innovatore, espressione di un atteggiamento umano del tutto mutato. Ma, a dire il vero, l’intima ragione di quella condanna del significato filosofico dell’Umanesimo è un’altra; e del resto risulta ben chiara da quel continuo richiamarsi per contrasto alle sin tesi metafisico-teologiche della ‘ottura, ma onesta scolastica’: si tratta cioè del sopravvivente amore per una immagine della filosofia che il pensiero del ‘400 costantemente avversò. Perché ciò di cui si lamenta da tante parti la perdita è proprio quello che gli umanisti vollero distrutto, e cioè la costruzione delle grandi ‘cattedrali di idee’, delle grandi sistemazioni logico-teologiche: della Filosofia che sussume ogni problema, ogni ricerca al problema teologico, che organizza e chiude ogni possibilità nella trama di un ordine logico prestabilito. A quella Filosofia, che vien e ignorata nell’età dell’Umanesimo come vana e inutile, si sostituiscono indagini concrete, definite, precise, nelle due direzioni delle scienze morali (etica, politica, economica, estetica, logica, retorica) e delle scienze della natura che, coltivate iuxta propria principia, al di fuori di ogni vincolo e di ogni auctoritas, hanno in ogni piano quel rigoglio che l’ ‘onesto’, ma ‘ottuso’ scolasticismo ignorò (…) Avere, soprattutto, abituato le nuove generazioni a cosiffatto modo di vedere e di pensare; avere ‘umanamente’ educato potrà sembrare poco ai vagheggiatori di ben architettate costruzioni teologiche, ma a chi intenda la filosofia come consapevole indagine di guise umane, e discussione di concetti, sembrerà impagabile conquista (…) Modesta ricerche – s’è detto – ‘filologiche’ e storiche, che rinunciando a quei gravi discorsi di Dio e dell’intelletto ricercavano invece le guise delle umane città, e dei costumi e dei riti degli uomini, o, sul terreno delle scienze, volevano precisare la natura delle malattie o la struttura dei viventi con ‘grammaticale’ pedanteria; proprio perché – come insegna il grande Antonio Benivieni – alle scuole dei ‘grammatici’ avevano imparato un metodo e un modo di affrontare la realtà. Che è precisamente quell’atteggiamento ‘filologico’ che, come aveva visto una storiografia oggi troppo facilmente disprezzata, costituisce appunto la nuova ‘filosofia’, ossia il nuovo metodo di prospettarsi i problemi, che non va considerato quindi, come taluno crede, accanto alla filosofia tradizionale, come un aspetto secondario della cultura rinascimentale, ma proprio effettivo filosofare (…)”
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“(…) Perché senza la sicurezza del testo è inutile andar discutendo a vuoto, magari di questioni inconsistenti (…) Salutati, buon scolaro di Petrarca, batteva sempre su questo: sulla necessità di smetterla, innanzi ai testi dei filosofi, con le lunghe discussioni impiantate a vuoto e senza preoccuparsi di cominciare con l’intenderli nel loro valore originario esatto (…) Per questo, a un certo momento, la lezione dei ‘filologi’ si fa decisiva per i ‘filosofi’, presso i quali si fa sempre più vivo il bisogno di fonti originali, di testi corretti, di precisione storica, mentre Aristotele cessa di essere un’auctoritas per diventare un pensatore come tutti gli altri, definito in un suo proprio tempo. Quando troviamo l’aperta confessione che Aristotele non basta più, perché non ha v isto certi problemi, sentiamo il distacco da un antico modo di pensare: non c’è più un testo dato per sempre – da chiosare; non c’è più – lì innanzi – la Verità da illustrare: c’è il rischio di un’avventura dove tutto è, sì, oscuro, ma tutto, ancora, è possibile (…) Per questa via, proprio e solo l’Umanesimo, concludendo del resto una lunga crisi, collocò nei suoi quadri storici e oltrepassò per sempre quell’antica visione del reale statico, a strutture rigide, astorico oggetto di contemplazione, che la logica platonico-aristotelica aveva presupposto, e dove un moto ritornante in eterno su posizioni identiche si dissolve in una parvenza di moto, mentre l’uomo e la sua vita e la sua attività si perdono in una radicale in significanza. E quello che certi critici non afferrano è che senza la cosiddetta ‘retorica’ dei Guarino, dei Valla, dei Poliziano, e di altri cosiffatti pedanti le autorità non sarebbero mai state rovesciate dai loro piedistalli, né la logica d’Aristotele sarebbe stata vista per quello che è: un mirabile strumento del pensiero umano, inserito e valido entro certe dimensioni culturali; logica, appunto, di Aristotele di Stagira, e magari di Euclide e di altri non pochi sottili indagatori – ma non, assolutamente, la logica. Come in segnò con tutta chiarezza Lorenzo Valla il giorno in cui non pretese più di discutere dentro l’aristotelismo, ma ruppe in blocco contro di esso. Proprio nella premessa alla Dialettica il Valla definisce la sua posizione: la logica aristotelica non è l’unica logica. Ond’egli non accetterà più l’obbligo della scuola: di giurare, cioè, che Aristotele nei fondamenti non può mai sbagliare; ché anzi egli desidera proprio di spiantare Aristotele e l’aristotelismo fin nelle radici (…) Solo la conquista del senso dell’antico come senso della storia – propria dell’umanesimo filologico – permise di valutare quelle teorie per ciò che esse erano davvero: pensamenti d’uomini, prodotti di una certa cultura, resultati di parziali e particolari esperienze: non oracoli della natura o di Dio, rivelati da Aristotele o Averroè, ma immagini ed escogitazioni umane (…) Il tema del ‘ritorno’ a Platone richiama qui un vecchio e sempre nuovo equivoco, e cioè l’idea che l’umanesimo sia stato determinato e caratterizzato dalla conoscenza di nuovi testi classici prima ignorati; la lettura di Cicerone, di Lucrezio e di Seneca, di Platone e di Plotino avrebbe rinnovato la cultura; un aumento quantitativo di letture classiche si sarebbe trasformato in un salto qualitativo (…) [Ma] i vecchi libri di scuola trasmettono le cristallizzazioni estreme della cultura antica all’in segnamento medioevale; e sono questi libri innanzi a cui un reverente atteggiamento limita l’opera del maestro alla chiosa, all’ossessivo e torturante commento (…)”
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“(…) Proprio l’atteggiamento assunto di fronte alla cultura del passato, al passato, definisce chiaramente l’essenza dell’umanesimo. E la peculiarità di tale atteggiamento non va collocata in un singolare moto d’ammirazione o d’affetto, né in una conoscenza più larga, ma in una ben definita coscienza storica. I ‘barbari’ non furono tali per aver ignorato i classici, ma per non averli compresi nella verità della loro situazione storica. Gli umanisti scoprono i classici perché li distaccano da sé, tentando di definirli senza confondere col proprio il loro latino. Perciò l’umanesimo ha veramente scoperto gli antichi, siano essi Virgilio o Aristotele pur notissimi nel Medioevo: perché ha restituito Virgilio al suo tempo e al suo mondo, e ha cercato di spiegare Aristotele nell’ambito dei problemi e delle conoscenze dell’Atene del quarto secolo avanti Cristo. Onde non può né deve distinguersi, nell’umanesimo, la scoperta del mondo antico e la scoperta dell’uomo, perché furon tutt’uno (…) Ma il punto in cui si concretò quella presa di coscienza fu l’accendersi di una discussione critica innanzi ai documenti del passato che (…) permise di stabilire una nostra distanza rispetto a quel passato: quei settecento anni di tenebre – tanti ne contava Leonardo Bruni – in cui ottenebrato era lo spirito di critica, in cui sembrava affievolita la consapevolezza della storia come farsi umano (…) Mentre i testi più venerabili sono affrontati nella loro realtà storica, mentre le carte degli antichi privilegi sono sottoposte al vaglio di una critica demolitrice (…) Questo è il senso della ‘filologia’ umanistica: e ben si capisce che questi uomini fossero pedantissimi, sensibili come erano alla fecondità di un metodo. Perché v’è tanto commovente amore in quel desiderio esasperato di recuperare quanti più ricordi è possibile dell’umana fatica. Poliziano innanzi a un verso di Teocrito o di Stazio vuol ritrovare ogni sapore, ogni allusione (…) Poliziano ha scritto pagine che non costituiscono solo una grande lezione di umanità: esse definiscono un metodo valido in ogni campo di indagine. Si capisce (…) perché il Rinascimento non fu solo tempo d’artisti, ma anche di scienziati, di Toscanelli e di Galileo; si capisce perché gli sterili, anche se sottilissimi dibattiti dei fisici e dei logici medioevali si fecero fecondissimi solo dopo la nuova lezione, che pur sembrava così lontana nel suo significato. Si capiscono i medici nuovi usciti dalle scuole di filologia; e innanzi a quella rigorosissima, e vorrei dir spietata istanza critica, si capisce il dubbio di Cartesio. E si capisce anche perché, per due secoli circa, la cultura italiana dominasse l’intera Europa, e l’Italia potesse sembrare terra feracissima di innumerevoli ingegni filosofici (…)”
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